Negli ultimi 6 mesi mi sono avvicinato ai temi dell’educazione economica, nuovi nella loro specificità, ma molto vicini al mio costante interesse per l’antropologia economica. L’approssimazione a questi temi si è data nel quadro del programma di sviluppo territoriale di ActionAid, al quale sto lavorando. Nello specifico, ho contribuito all’elaborazione dell’idea progettuale Nuove povertà e partecipazione, che intreccia il contrasto alla povertà mediante l’educazione economica, alla richiesta di accountability alle istituzioni locali, e quindi a un processo di advocacy dal basso; ho partecipato e contribuito al seminario di formazione Alfabetizzazione economica e finanziaria / Spesa Pubblica e Bilanci famigliari. Sperimentazione della metodologia ELBAG, che si è tenuto a Bologna dal 5 al 7 maggio 2012; ho contribuito alla stesura del manuale Ora facciamo i conti. Uno strumento di alfabetizzazione economica e normativa per conoscere e attivarsi, frutto del seminario di Bologna; ho contribuito a formulare diverse idee progettuali legate all’educazione economica di fasce deboli della popolazione.
Riflettendo su questi temi, spesso ripenso agli anni in cui lavoravo a stretto contatto con i contadini dei villaggi amazzonici, oppure della Vale do Ribeira, e la confronto con il terreno dell’educazione economica, che sto dissodando di questi tempi in Italia: c’è una simmetria. I contadini che ho conosciuto, soprattutto quelli tra i 25 e i 45 anni, sono impegnati in uno sforzo cognitivo, volto a comprendere quali beni proposti dalla televisione sono degni di imporre una torsione alle loro vite (quando parlo di torsione mi riferisco a un cambiamento significativo delle abitudini di vita e di lavoro, volti a ottenere quelle risorse monetarie aggiuntive necessarie all’acquisto). Qui in Italia il problema è capire di quali beni o servizi — proposti da una molteplicità di canali — si può fare a meno, di quali no. Il gioco, da un punto di vista cognitivo, è simile, benché acquisire sia sempre più gioioso di perdere.
Non credo che sia possibile dividere chiaramente i beni necessari da quelli superflui, ma ognuno di noi si crea una mappa multidimensionale, e pone al centro ciò che è praticamente irrinunciabile, all’estrema periferia ciò che non ci interessa. C’è un certo consenso rispetto alla collocazione di molti beni e servizi, mentre altri occupano posti molto diversi a seconda delle persone. Questa mappa peraltro non è statica: gli oggetti si muovono, velocemente o rapidamente e tali movimenti dipendono sia da cause personali, sia sociali.
Riconciliare tale mappa mentale con il potere d’acquisto è un esercizio complesso e a volte doloroso. Nella parte più bassa della scala sociale, non è facile cambiare il reddito disponibile. Ciò nonostante, ritengo che tale mappa possa avere un’influenza significativa nelle scelte lavorative delle famiglie.
Un ulteriore fattore di distinzione, nella mappa, è la separazione tra ciò di cui vogliamo usufruire possedendolo, e ciò di cui preferiamo usufruire insieme ad altri. Anche in questo caso, collocare un bene/ servizio in una o nell’altra categoria, fa la differenza; anche in questo caso, esistono limiti dettati dall’esterno: non tutto è privatizzabile, non tutto si può rendere pubblico (o comunitario), alcuni beni/ servizi se goduti in comunità hanno valore, se goduti privatamente, ne hanno un altro. La categorizzazione del bene/ servizio pubblico, comunitario e privato, afferisce pure a una moneta, le cui facce sono i diritti e i doveri 1.
Aggiornato l’8 gennaio 2022.
- La moneta si è rotta: uno dei fattori della “crisi civile” che ci attraversa è che rinunciamo a rivendicare i diritti, riservandoci di non compiere i nostri doveri. ↩