Qualcosa (non tutto) nacque con l’isolamento dovuto al Coronavirus. Obbligati a stare in casa, anche nel weekend, giocoforza si valorizzano i legami di prossimità.
Facciamo qualche passo indietro. Vivo in un grande condominio, in zona Mirafiori a Torino. La fabbrica è ben presente nel nostro spazio vitale, perché solo un corso ci divide dall’immenso isolato (5 km di perimetro) del primo stabilimento, quello inaugurato nel 1934, quello dove si trova anche la palazzina dirigenziale. Il condominio dove vivo è stato costruito al posto di un prato, resistito all’invasione dei parcheggi, che negli anni ruggenti della fabbrica ospitavano le auto di coloro che producevano auto. Colando a picco il numero di occupati, i parcheggi sono diventati eccessivi e al posto del prato è nato un palazzo. L’edificio è stato ultimato nel 2004, ha dieci piani, 2 scale, 40 appartamenti.
Una zona come quella in cui sorge il mio condominio non ha un centro di gravità. Questo è un problema, al quale gli urbanisti probabilmente non danno sufficiente importanza, ma che in questo momento lasciamo sullo sfondo, per concentrarsi sul condominio. Come detto, vi sono 40 appartamenti, la maggioranza sono famiglie, ma vi sono anche un buon numero di persone sole; delle famiglie, circa metà hanno figli. Le età sono quindi molto diversificate, la nazionalità prevalentemente italiana, con qualche eccezione. C’è sempre stata cordialità tra i condomini, favorita dalla mancanza (sino ad ora) di oggettivi motivi di scontro; qualche conoscenza favorita da affinità elettive, ma non quella conoscenza di massima di tutte e tutti che fa la comunità.
Comunità è una parola complessa e abusata, che carica su di sé secoli e quintali di sociologia, di letteratura, di retorica. Dimenticando tutto per un attimo, vorrei poter dire, in modo volutamente naif, che in una comunità non è necessario conoscersi tutti/e bene e non è sufficiente conoscere bene qualcuno/o. Bisogna conoscersi tutti/e un po’.
Questo è ciò che è successo sotto la spinta del primo lockdown della primavera del 2020. Poco più di un mese dopo le prime restrizioni, sull’onda della musica e dei canti alla sera sui balconi, affiggo un cartellone, scritto a mano, nell’atrio del condominio; in esso mi auguro che tutti stiano bene e lancio due idee, tra cui uno scambio di libri. Indico il mio numero di cellulare.
Le idee non hanno (con un’unica eccezione), ma poco più di una settimana dopo un’altra inquilina lancia un gruppo di messaggistica e inizia a raccogliere i partecipanti, che in breve diventano più di 20, raggiungendo la metà degli alloggi del palazzo. Nel gruppo si acquisisce il contatto di persone note, si associa un viso ad un nome e, in alcuni casi, si viene a sapere dell’esistenza di persone che prima non si erano mai viste. La stessa famiglia che ha lanciato il gruppo di messaggistica, poche settimane dopo diffonde una pagina nella quale si raccolgono adesioni intorno a possibili miglioramenti nelle aree comuni del condominio; l’iniziativa ha successo e raccoglie molte adesioni. Per la precisione: 21 per la piantumazione del giardino interno, 18 per l’allestimento con panchine, 16 per i giochi per i bambini.
Con il passare del tempo i messaggi si fanno più rari e più scarni, ma ad oggi il gruppo è ancora attivo ed è utilizzato per segnalare piccoli problemi e oggetti dimenticati, per organizzarsi in occasione delle assemblee di condominio, per sottoporre agli altri idee. Si è creata una rete di relazioni che alla maggioranza dei partecipanti non interessa attivare nella quotidianità, ma che rimane latente, presente e pronta ad essere messa in gioco quando diventi necessario.