Durante il XXX Congresso Internazionale di Americanistica (Perugia), 6-12 maggio 2008, nel seminario Amazzonia. Stato dell’arte della ricerca sul campo si è discussa la relazione tra ricerca, soprattutto nelle scienze sociali e letterarie, ed in particolare nell’antropologia, e progetti di sviluppo, in particolare non governativi.
In poche parole, si è affermata l’interdipendenza epistemologica tra ricerca e azione e la necessità di un legame tra le due pratiche; allo stesso tempo, è stata rilevata la separatezza tra attori della ricerca (in particolare le università) e attori dello sviluppo (in particolare le organizzazioni non governative).
Attori della cooperazione internazionale ed attori della ricerca in Amazzonia
Riporto qui la trascrizione del mio intervento alla tavola rotonda Ammazzonia. Lo stato attuale delle ricerche sul campo (Roma, 13 maggio 2008), e un breve riassunto delle questioni sollevate negli interventi successivi. La mia intenzione era trascrivere tutta la ricca discussione, ma, purtroppo, la qualità della registrazione non lo ha permesso.
Il mio punto di vista è un po’ differente dagli altri per due motivi. In primo luogo perché invece da partire dalla ricerca e andare all’azione io parto qui da un’esperienza di azione, lavoro in un’organizzazione non governativa per la quale lavoro dal 2004 nella regione Baixo-Amazonas, stato del Pará, Brasile; la seconda differenza è che mi sono sempre occupato di popolazioni cabocla , non di indios .
Ho riscontrato in vari interventi la problematica della relazione tra ricerca e azione, tra la ricerca e l’impegno per la difesa dei diritti, per il rafforzamento economico e sociale delle popolazioni coinvolte [nella ricerca], sia, come nel caso di Lino e di Edmundo, laddove vi è un impegno a partire dalla ricerca, sia, nel caso di Adalberto, in cui c’è stato il lavoro di ricerca, e, accanto, l’azione.
Il senso del mio intervento è quello di tematizzare questo rapporto che è, secondo me, estremamente difficile, soprattutto per [regioni quali] l’Amazzonia, in quanto come ogni luogo colonizzato, ma forse anche di più, c’è sempre stato un occhio volto all’intervento; in più, l’Amazzonia è sempre stata vista in due ottiche opposte: paradiso, da un lato, di chi cercava in questi luoghi le comunità non toccate dalla civiltà [il buon selvaggio], e dall’altro lato l’inferno amazzonico, con la sua foresta misteriosa, come luogo di cannibali, come luogo dove non si può realizzare lo “sviluppo”, perché non si riusciva; si pensi all’esperienza fallita delle plantation – fortunatamente fallite, [ma il cui fallimento ha creato il mito di una inespugnabile arretratezza].
Tutti questi attori, non caratterizzati da intenti di ricerca, ma che hanno penetrato l’Amazzonia per realizzavi un’azione, hanno creato in realtà una grandissima quantità di sapere, ovviamente un sapere orientato all’azione, ma che costituisce una fonte molto abbondate di dati, che, molto spesso e per vari motivi, non sono stati utilizzati. Tra questi possiamo citare le imprese minerarie, le banche, gli organi pubblici e, più recentemente, le organizzazioni non governative di cooperazione allo sviluppo.
E’ al riguardo interessante ed importante analizzare le differenze costitutive delle due tipologie di attori, e a partire da questa analisi ipotizzare le possibilità di dialogo. Gli attori della ricerca hanno tempi più lunghi, in quanto gli attori dell’azione hanno necessità di tempi brevi. [In entrambe i casi si ha una disparità tra soggetto (osservante o agente) ed oggetto (osservato o agito); ma sia nel campo della ricerca, sia nel campo di quella parte dell’azione di cui specificamente qui parliamo, la cooperazione allo sviluppo, alcuni attori si sono posti il problema della partecipazione], e quindi, come far parlare l’altro, nel caso della ricerca, e come far partecipare l’altro, nel caso dell’azione. Nel caso della ricerca il potere del ricercatore sul ricercato è più nascosto, [più sottile], nel caso dell’azione tale potere è più evidente, perché è attuato, con l’obbiettivo di mutare una realtà. Un’altra differenza importante, legata a questa, è che, generalmente, l’agente della ricerca non è stakeholder , ovvero non è coinvolto in processi decisionali che riguardano il suo oggetto di ricerca, in quanto nell’azione, l’agente è, per definizione, stakeholder.
Tra gli attori della ricerca e gli attori dell’azione sussiste una mancanza di dialogo: i soggetti della ricerca si sono disinteressati all’azione, così come i soggetti dell’azione si sono disinteressati alla ricerca.
A partire da queste considerazioni, sorgono alcune domande: quale dialogo tra la ricerca e l’azione? Come appropriarsi di tutto il materiale prodotto dagli interventi? Come la ricerca può qualificare l’azione, visto che la maggior parte delle organizzazioni non governative che, per quanto ho avuto modo di vedere nella regione dell’Amazzonia in cui ho lavorato, realizzano interventi senza sapere bene dove “stanno mettendo i piedi”, senza conoscere profondamente la realtà che intendono cambiare, o preservare?
Su un altro piano: che peso hanno, nel determinare l’agenda della ricerca, le priorità delle popolazioni che della ricerca sono oggetto?
Come suggerimento di riflessione vorrei concludere riflettendo su due concetti: quello dell’adeguatezza e quello della partecipazione, che a mio parere possono fornire una chiave di lettura importante nella risposta alle domande precedenti. Adeguatezza: solo una conoscenza molto approfondita della realtà in cui si vuole operare, una conoscenza che solo dalla ricerca può essere alimentata – una ricerca, però, che per fare questo deve anche sapersi metodologicamente aggiornare – permette che la direzione del cambiamento promosso sia benefico, e non malefico, per le popolazioni coinvolte in tale cambiamento. Partecipazione: la modificazione degli equilibri e dei meccanismi di potere, è la condizione necessaria affinché la distinzione tra osservato e osservante, tra chi definisce la direzione del mutamento e chi vive questo mutamento non sia una divisione di condizione, ma una distinzione temporanea di ruoli.
Altri interventi
La maggioranza degli interventi hanno affermato e rafforzato la questione dell’indissolubilità tra ricerca ed azione; in uno dei primi interventi Santoni lo ha espresso chiaramente «Il fatto di arrivare sul campo, intrecciare il proprio lavoro, la propria esperienza con delle persone dei rapporti, ti mette indirettamente in uno stato di azione politica. [.] Questa è una premessa necessaria per avere coscienza di ciò che si fa e fare con coscienza le cose». Neves va quasi oltre, affermando che non c’è distinzione tra politica e ricerca, e che ogni ricerca si inserisce in uno specifico contesto politico, così come ogni politica ha dei riferimenti teorici e spirituali. Recuperando il contenuto dell’intervento di Fanelli, Frova ancora una volta conferma il consenso quanto all’indissolubilità concettuale tra ricerca e azione, ma mette in luce la necessità di chiarificare le logiche delle istituzioni di ricerca e quelle delle organizzazioni di cooperazione, al fine di promuovere azioni che superino tale divario. Mazzoleni sottolinea che «Bamonte ha da sempre portato avanti la ricercazione, cioè non è andato mai passivamente da nessuna parte del mondo, né in Amazzonia, né nel Sudest asiatico, né in America Latina. Si è sempre occupato di indigeni, sia dando loro gli strumenti per rapportarsi con i governi locali, sia portandoli all’ONU. Quindi non si tratta soltanto di ricerca»; e Santoni ricorda l’esperienza dei progetti di cooperazione internazionale del Circolo Amerindiano, che partono dall’idea della promozione della cultura materiale e immateriale dei popoli indigeni, e si basano su un incontro tra teoria e prassi.
Un altro tema toccato da vari interventi è il contenuto dell’azione. In questo senso Poggion mette in luce che un problema centrale, nello snodo tra ricerca e azione, è il pernicioso concetto di sviluppo sostenibile, paradossale perché «nessuno sviluppo è sostenibile»; pertanto urgente è la critica a questo concetto. Bollettin e Santoni si soffermano invece sulla realtà dei progetti di sviluppo che, anche quando realizzati “a fin di bene”, possono rompere equilibri preesistenti e creare più danni che benefici. In questo senso, secondo Bollettin, non «la ricerca deve essere orientata dall’azione, ma l’azione dalla ricerca».
Alcuni interventi si sono soffermati sulla questione del differente rapporto tra ricerca e azione nelle diverse discipline, alcuni per affermare questa differenza, altri per negarla. Questi ultimi in particolare hanno mostrato come discipline anche estremamente astratte hanno un’influenza diretta sulla pratica, agendo sulle rappresentazioni del mondo delle persone.
Peres si è soffermato sul versante epistemologico del rapporto tra ricerca e azione: «non è possibile osservare nulla asetticamente. Ciò che osserviamo è determinato dalla nostra presenza». E si domanda, aggiungendo un nuovo elemento: «se dunque non vi è dubbio che la ricerca sia pure azione, anche ogni azione è una ricerca?».
Alcuni interventi di ricercatori sudamericani si è infine soffermato sulla crescente domanda di antropologi da parte dello Stato e delle imprese, sia nell’affermazione, sia nella negazione di diritti di popolazioni locali. Nel primo caso si tratta delle politiche pubbliche differenziate per le popolazioni indigene, quilombola , ribeirinha , etc., dove all’antropologo si chiede di identificare le popolazioni beneficiarie di tali politiche. Nel secondo caso si tratta della costruzione di grandi opere pubbliche – centrali idroelettriche, miniere, ecc.; qui l’antropologo deve valutare l’impatto delle opere sulle popolazioni coinvolte; in questo secondo caso si tratta di una questione molto critica, in quanto chi contratta tali valutazioni vuole occultare o minimizzare gli impatti; per questo, dice Peggion, si sono dati casi recenti di difficoltà, da parte di imprese e governi, nella contrattazione di antropologi per questo fine.
Riascoltando, a qualche mese di distanza, gli interventi su ricerca e azione dei partecipanti alla tavola rotonda, mi rendo conto di quanto fosse presuntuoso ed al tempo stesso importante toccare questo tema: presuntuoso, per la inesauribile ampiezza dell’argomento, che chiama in causa il problema della relazione tra idee e azioni, tra teoria e prassi, che nasconde trabocchetti legati alla definizione di ciò che è ricerca e di ciò che è azione, che ha ramificazioni in una molteplicità di discipline, dalla filosofia e epistemologia, alla pedagogia, all’antropologia, alla sociologia, alla storia, che ha interessato, solo per citare quelli che subito mi vengono alla mente, studiosi quali Gramsci, Weber, Bobbio, Freire; importante, perché è una questione particolarmente sentita, soprattutto per gli studiosi che si accostano a popoli più o meno oppressi, al Sud come al Nord del mondo, e il soffermarsi a ponderarla, pur senza volerla esaurire, è un percorso ricco e qualificante; importante, infine, come stimolo a coinvolgere, mettere in questione, gli attori della cooperazione internazionale, proprio perché questo è forse uno tra i campi in cui maggiori sono le possibilità di interessanti e proficui intrecci tra l’azione e la ricerca.